La Bohème, Teatro Regio di Torino, Octobre 2004
Distribution
Mimì Angela Gheorghiu
- Virginia Tola (24/10)
Rodolfo Roberto Alagna
- Massimiliano Pisapia (24/10)
Musetta Donata D’annunzio Lombardi
Marcello Lucio Gallo
Schaunard Fabio Previati
Colline Giovanni Battista Parodi
Benoît Alessandro Busi
Alcindoro Graziano Polidori
Parpignol Sabino Gaita
Sergente dei Doganieri Mauro Barra
Vladimir Jurlin (24/10)
Un Doganiere Alessandro Inzillo
Marco Sportelli (24/10)
Direttore D’orchestra Evelino Pidò
Regia Giuseppe Patroni Griffi
Scene e Costumi Aldo Terlizzi
Luci Andrea Anfossi
Maestro del Coro e del Coro di Voci Bianche Claudio Marino Moretti
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di Voci Bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “g. Verdi”
Allestimento Teatro Regio
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Recite del 15 e del 24 Ottobre 2004
Revue de Presse
Operaclick décembre 2004
Marco Fornengo
Tutto il glamour e l’ansia mondana di questa Bohème stanno in due nomi: Angela Gheorghiu e Roberto Alagna. Pubblicizzati, fotografati, intervistati, rincorsi e mitragliati di bouquet, sono loro oggi i “grandi nomi” della scena lirica, cui si cerca di strappare un sorriso, un autografo, una dedica per poter dire «io c’ero!» e tornare a casa fieri di aver incrociato, almeno per un momento, lo sguardo di chi, sottoforma di poster formato gigante, occhieggia dalle vetrine dei negozi di musica di tutt’Europa.
Irraggiungibili divinità arroccate in qualche angolo dell’Iperuranio, dunque? Tutt’altro: nei camerini, a fine spettacolo, le due stars ci spalancano le braccia, ci chiedono se lo spettacolo è piaciuto, firmano dozzine di autografi a testa senza farci sentire nel minimo imbarazzo, ridono, scherzano, pazientano fino a soddisfare con entusiasmo l’ultima richiesta di qualche logorroico ammiratore («può mettere la data accanto alla firma?» et similia…). Lei, Angela, d’una bellezza autentica e non appariscente in modo artificiale, nerissimi i capelli come gli abiti, s’informa con irresistibile premura se la foto fatta con un ammiratore è riuscita: è venuta mossa, benissimo, la si rifà con la stessa gioia di prima, mentre al suo posto qualsiasi altra cantante con velleità pseudodivistiche se ne sarebbe andata convinta d’essersi già fin troppo mischiata con la plebe. Lui, Roberto, poco vestito per il gran calore, manda in visibilio ragazze e signore con il suo charme siculo-francese, sommerge d’informazioni il ragazzo che gli ha chiesto lumi sui suoi prossimi impegni, sorride, firma a destra e a manca, pazienta con il tale che non trova la penna, s’improvvisa poliglotta con idolatranti fans venuti da ogni dove.
Se tutto questo concorre nel dare l’idea globale di un artista, quella dello scorso 15 Ottobre al Regio di Torino è stata davvero una gran serata, di quelle che frizzano e che ti si stampano nella memoria e nei ricordi finché campi. Coppia anche nella vita, per la prima volta in Italia i due cantanti apparivano sul palcoscenico insieme, la sera del 12, con unica replica tre giorni dopo: forse questo, l’unico vezzo divistico della situazione, oltre un sensibile incremento dei prezzi per le due serate.
Ne vale la pena, certo, e non solo per l’aver preso parte ad un evento mondano di cui non ci si dimenticherà tanto presto, ma soprattutto per il reale valore artistico di questa Bohème inaugurale.
Cantano benissimo entrambi, con buona pace di chi vuol vedervi solo due fenomeni discografici: dal vivo si ha l’impressione viceversa di due voci molto più spontanee naturali ed autentiche che non in cd. Alagna è in possesso d’una voce bella, chiara e morbida, in cui si riflettono fantastiche nervature dorate; facile all’acuto, anche la tecnica è molto buona, senza troppe concessioni a quei “singhiozzini” percepibili in alcune sue incisioni o agli acuti cosiddetti “alla Carreras”. Come interprete ha tutto per essere il Rodolfo di oggi: niente eccessi zuccherosi che fanno tanto amarcord, nessun istrionismo con lacrima incorporata ad ogni nota, ma viceversa una recitazione spigliata, mobilissima e naturale, cordiale e logica, irresistibilmente simpatica, gioco scenico meraviglioso aiutato in misura non trascurabile da una notevole agilità fisica, ne fanno un personaggio in tutto credibile vero e “giusto”. Tanta è la facilità con cui risolve il ruolo che davvero si resta rapiti e sbalorditi.
La Gheorghiu canta altrettanto bene: il suo nero velluto vocale si stende con meravigliosa aderenza sulle frasi di Mimì, cui dona inconsueta eleganza e aristocratica nobiltà d’animo. Personaggio cordiale ma chiuso nella sua timida intimità, socialmente fragile ma provvisto di un’infuocata autorità interiore, questa Mimì abbaglia per la sua semplicità (autentica, non posticcia: e nulla v’è di più irritante che la semplicità fasulla), per la sua chiarezza, per la linearità delle sue azioni. Se devo muovere una riserva, però, mi si lasci dire che il quarto quadro, quello dell’agonia e della morte, m’è sembrato alquanto meno riuscito degli altri: qui emerge il sospetto d’una certa affettazione, e il tormento della giovane fioraia assume tratti un po’ esteriori, riassumibili in quel convulso singhiozzino che segna il momento del trapasso. Lavorando ancora su questo finale, la Gheorghiu diventerà una Mimì del tutto completa e imbattibile.
La maggior parte delle altre recite è stata sostenuta da due cantanti assai meno celebri, che mi trovavo ad ascoltare per la prima volta: inevitabile, comunque, che di fronte a cotanta coppia Massimiliano Pisapia e Virginia Tola tendano alquanto a sfigurare. Già fisicamente l’assortimento è più bizzarro: lui bello pasciuto, tanto da far venire il sospetto che questo Rodolfo tenga i viveri nascosti da qualche parte senza dirlo agli altri, lei magra e parecchio più alta di lui. Pisapia non canta per nulla male: la sua voce, gentile e graziosa, è ben timbrata e ben poggiata, ma non sembra essere molto adatta a Puccini, fragile come si dimostra sotto le temperie orchestrali. Si direbbe più idonea a certi ruoli belcantistici, ma ho il sospetto che quel tipo di coloratura gli sia piuttosto estraneo: non so quale repertorio possa frequentare con successo una voce come questa. È però interprete simpatico e comunicativo, cosa che non può dirsi della Tola: piuttosto fredda e anonima nella caratterizzazione di una Mimì genericamente flebile, molto impersonale e cantata senza gusto, con approssimazione e voce piuttosto ordinaria.
Di gran classe il resto del cast, che ha incorniciato entrambe le coppie protagoniste. Il pubblico torinese è ormai affezionato a Lucio Gallo, gran vocalista e grande attore: la sua figura alta e snella imprime bonaria autorità al personaggio di Marcello, pensato dal regista Patroni Griffi come il più cosciente e responsabile della cricca di artisti bohèmiens. Il suo canto scuro e levigato corre nel teatro che è una meraviglia, la recitazione è ancora una volta spigliatissima ad onta di qualche trascurabile effetto istrionico (la frase «Bugiardo, si strugge d’amor» trascina troppo le consonanti, con effetto vagamente cacofonico). Il successo arrisogli è stato quindi assolutamente meritato, al pari dell’eccellente Jack Rance impersonato l’anno scorso nella Fanciulla del West. Molto bravo anche Fabio Previati nel ruolo del musicista Schaunard, d’impareggiabile eleganza nel suo aspetto di dandy dalla lunga chioma argentata; assai meno bravo purtroppo Giovanni Battista Parodi, che fa la voce grossa per dare autorità a Colline ma non ci riesce, col risultato di rendere parecchio grossolana l’aria della zimarra.
Più difficile inquadrare la Musetta di Donata D’Annunzio Lombardi: scenicamente molto carina e vispa, istintivamente simpatica, ricopre però il personaggio di incrostazioni che ci si augurava di non dover più sentire, come risatazze sguaiate (particolarmente sgradevole la prima che separa le ultime due parole nella frase «Io detesto quegli amanti / cha la fanno da mariti...») o comportamenti da sboccacciata sgualdrina di periferia, che sono cosa rifritta e ormai indigesta.
La direzione di Evelino Pidò, nel suo debutto in quest’opera, si è dimostrata molto sensibile alla cifra teatrale di Bohème: tempi essenzialmente rapidi e incisivi, ritmo infuocato e tagliente, grande precisione negli attacchi e attenzione ai bellissimi impasti cromatici ideati da Puccini. Le due arie dell’atto primo hanno logicamente costituito, nella serratezza del discorso, due oasi di incantato lirismo, con agogica sensibilmente dilatata e predilezione dei timbri diafani, luminosi e cristallini su cui inserire la voce dei cantanti; è pleonastico scrivere quali bellissimi risultati siano stati raggiunti in questi punti dagli Alagna, mentre dispiace constatare come la voce di Pisapia non sia riuscita ad emergere neppure grazie ai miracoli di chiarezza e dinamica offertigli da Pidò.
Orchestra e coro in forma più che smagliante, come ci si augura di ascoltare in tutto il resto della stagione: in complesso, una parte musicale decisamente elettrizzante.
A differenza del Parsifal genovese visto quasi in contemporanea, dunque, questo era essenzialmente – e dichiaratamente fin dalla sua nascita - spettacolo di voci e assai poco di regia: inutile quindi cercare nell’allestimento di Giuseppe Patroni Griffi la novità, il colpo di genio o il punto di vista inedito. Nella funzione di comodo tappeto per le acrobazie vocali, questa regia ha comunque svolto il suo ruolo molto bene: kitsch ridotto ai minimi termini, benché non del tutto estinto, scenografie graziose e piacevoli (giusto un filo d’imbarazzo nel terzo quadro, non tanto per la scena della nevicata stile presepio, quanto piuttosto per l’«oooohhhh!» del pubblico che inevitabilmente vi s’accompagna). Regia innocua, insomma, di quelle che fanno dormire tra due guanciali gli affezionati del “come eravamo”, ma che comunque lasciano un amaro retrogusto di occasione sprecata nella bocca di chi ama il teatro nella sua più alta essenza.